È votivo. Si trova in via Montecavallo, in località omonima, ai confini con Monticello di Lonigo, sulla strada per il Lago. Appartiene alla parrocchia di Villa del Ferro, su fondo di Negri Vittorio, pur essendo stato costruito con il concorso delle Parrocchie vicine: Alonte e Monticello.
Ricorda la micidiale epidemia, il colera morbus, scoppiato a metà luglio dell’anno 1886 e durato un mese e mezzo, mietendo senza pietà una decina di vittime, specie sui monti dove aveva particolarmente infierito a causa soprattutto delle cattive condizioni igieniche per la carenza estrema di acqua e di alimenti. Il precedente colera, quello del 1856, era stato ben peggiore. Aveva causato addirittura 15 vittime e uno spavento indicibile tra la popolazione. A colera esploso in quel 1886, solo il pensarlo, quel ricordo metteva terrore.
Scrisse il neo-Parroco di allora Don Feliciano Villardi che il morbo era salito da Corlanzone, Alonte e Sarego repentinamente, dalla sera alla mattina, tanto era fulminante. E pensando assomigliasse a quello del 1855 concludeva fervorosamente: Iddio ci liberi da tanto flagello!
Sulla gravità del morbo in parola ho raccolto dalla viva voce di Bepi Brun, ultranovantenne, ma dalla mente ancora fervida, la testimonianza di sua mamma che, finchè era piccolo, gli raccontava la storia della improvvisa morte di due fratelli del monte, certi Bianco. Essa aggiungeva con rammarico che al mattino erano passati presso casa sua col “ferro da segare” in spalla per recarsi a lavorare in valle ed il giorno dopo seppe che erano già morti.
Rita Bolcato, a sua volta, mi riferiva di aver saputo pure lei da mamma Maria che per impedire il diffondersi della pestilenza furono costituiti, nei crocicchi delle strade, posti di blocco, cosichè per recarsi da un luogo ad un altro dovevano andare per campi e boschi.
Altri mi raccontavano, sempre per sentito dire, che i morti venivano sepolti di notte, dopo aver bruciati gli indumenti e cosparso di calce i luoghi da loro praticati. Temendo, perciò, il propagarsi ulteriormente dell’epidemia la gente del monte si affrettò a promettere alla Madonna della Salute la costruzione di un capitello in suo onore.
A fine agosto dello stesso anno, infatti al dileguarsi della calura estiva, l’epidemia improvvisamente cessò e i sopravvissuti, mantenendo fede alla promessa fatta, con i soldi raccolti presso le famiglie del luogo mantennero fede alla promessa fatta e innalzarono in breve tempo il capitello.
Ma a 110 anni da quella data, un po’ per incuria, un po’ per vecchiaia, il capitello minacciava di crollare così, per opera d’alcuni volontari, con l’assistenza tecnica da parte finanziaria del comune e per la pietà della gente è stato recentemente restaurato.
L’opera a forma di cappella, specie nel timpano, si presenta ancor oggi com’era all’inizio: in stile barocco, a carattere prettamente ecclesiale. Sopra l’ingresso a pieno volto si staglia una croce in ferro e ai lati di questa fanno bella figura due stupendi puti alati in devota contemplazione. Il tutto in pietra bianca, lavorata, dipinta di giallo.
All’interno, invece, bellissimo, scorgiamo l’altare, pure esso in pietra berica, bianca e rifatto a dovere dallo scultore Lucio Stangoni di Grancona. Sopra l’altare, dentro una nicchia protetta da una finestrina con vetro, appare la statua della Madonna Pellegrina che nel 1950 andò a sostituire la precedente Madonna della Salute in abiti da sera, andati casualmente bruciati.
Il tetto, a due ordini di travature, sorregge tavelline e coppi fatti a mano. Il cancello in ferro battuto, a due ante, sormontato da un bellissimo lunotto, altresì in ferro battuto, è opera di Giuseppe Bressan di Orgiano che qui viene spesso in visita con la sua famiglia.
Il pavimento appare in lastroni di pietra dura e bianca. Esternamente un piccolo sagrato in calcestruzzo permette di sostare in devota orazione.
Ancora: ai tre lati, tutt’intorno, per conservare asciutti i muri, si stendono ex-novo il marciapiede ed un muretto a protezione. I muri perimetrali dell’intera opera, per essere impediti nell’ulteriore piegamento, sono stati abbracciati da un robusto cordone di ferro.
Per ricordare a tutti la titolarità del capitello, in alto, su pietra ricomposta, è stata rinnovata l’iscrizione: “Ave, o Maria, piena di grazia” mentre all’interno, su di una piccola pietra posta in alto, a memoria ancora dei posteri, compaiono le due date di costruzione e di ricostruzione: 1886 – 1996.
Nel retro, in una nicchia in basso, sono state riposte le monete dell’Imperiale Austria e del nascente Regno d’Italia, trovate casualmente durante il restauro. Ad esse furono aggiunte, dentro al recipiente di vetro altre monete del nostro tempo. Nella pietra dell’altare che un tempo era parrocchiale, accanto alla reliquia, credo di San Girolamo, stanno le firme di quanti hanno concorso nel restauro. Molti volontari, anche qui come alla Cesola, si sono impegnati nel restauro.
Bruno Candian è stato il muratore che ha offerto più di tutti la sua preziosa opera, poi i fratelli Lucino, Vittorio e Remigio Pasqualotto, ancora Ermenegildo Piacere, Pietro Panozzo e Enzo Manfro del Montecavallo ed altri.
Il capitello-sacello, detto di Montorio, è curato con amore dai coniugi Negri Vittorio e Bianco Pierina padroni del fondo, coadiuvati da Maria Bari, pure del luogo, che insieme ne detengono anche le chiavi. Esso è per il monte come un piccolo santuario. Più volte, durante la stagione estiva, vi viene ancor oggi celebrata la Messa, mentre un tempo vi facevano sosta le sacre Rogazioni prima di andar a concludersi con una bicchierata ristoratrice su al Lago, presso i coniugi Mazzaron, nella casa villica dei Conti Custozza, ora dei signori Lazzarini.
A fine lavori, nel settembre 1997, fu fatta una grande festa con preghiere, gastronomia e orchestra a base di canti, balli e con lotteria di beneficienza.
Testo a cura di: Rizzerio Franchetto e Carmela Bressan